Un imprenditore che sognava l'America
Gli Stati Uniti hanno sempre avuto un posto importante nelle vicende della Olivetti. Ancor prima della costituzione della Società, Camillo Olivetti intraprende due viaggi oltreatlantico (nel 1893-94 e nel 1896; seguiranno un terzo viaggio nel 1908-09, subito dopo la fondazione della Olivetti, e un quarto agli inizi degli anni '30) e avvia un'attività commerciale per la vendita in Italia di biciclette Victor e macchine per scrivere Williams prodotte negli Stati Uniti. L'ingegner Camillo è fortemente interessato alla tecnologia, alle tecniche di produzione e all'organizzazione delle imprese americane e le sue iniziative imprenditoriali in Italia hanno come punto di riferimento l'esperienza americana. Anche Adriano Olivetti nel 1925 si reca negli Stati Uniti, visita molte fabbriche, studia le tecniche produttive e i sistemi organizzativi delle imprese e al suo rientro a Ivrea si impegna per modernizzare la produzione e l'organizzazione dell'azienda paterna.
In quegli anni l'Olivetti non dispone delle risorse necessarie per entrare su un mercato competitivo come quello americano; anche il contesto politico ed economico internazionale scoraggia investimenti sul mercato americano. Ma nel dopoguerra la situazione cambia.
L'occasione è fornita dalla Divisumma 14, che esce nel 1948 e viene subito apprezzata per l'eccellenza della tecnologia e delle prestazioni. Nel giugno 1949 l'Olivetti porta 120 Divisumma negli USA e per alcuni mesi le sottopone alla verifica di varie banche, assicurazioni e industrie; il riscontro è molto positivo e l'azienda decide di costituire una sua consociata con sede a New York. Nasce così, nel 1950, la Olivetti Corporation of America (OCA), affidata alla guida di Dino Olivetti, con sede nella Fifth Avenue di New York (in seguito si sposterà in Park Avenue).
A partire da quel momento si susseguono gli sforzi dell'Olivetti per affermarsi sul mercato americano e per coglierne le molteplici opportunità tecnologiche e commerciali. Nel 1952 a New Canaan (Connecticut) viene aperto un laboratorio/osservatorio di ricerche elettroniche, autonomo rispetto alla OCA, ma da questa supportato; nello stesso 1952 presso il Moma (Museo of Modern Art) di New York ospita la mostra Olivetti: design in industry che sorprende il pubblico americano per l'eccellenza del design e dello stile aziendale dell'Olivetti; nel 1953 si inaugurano due filiali della OCA a Chicago e San Francisco; in queste città si aprono anche due negozi Olivetti, mentre alla vendita delle macchine da calcolo si affianca con crescente successo quella delle macchine per scrivere Lexikon 80 e Lettera 22.
Maturano così i tempi per rendere ancora più visibile la presenza Olivetti sul mercato americano: e un contributo decisivo in questa direzione è offerto all'inizio di giugno 1954 dall'inaugurazione dello splendido negozio di New York.
Negozi per fare che cosa?
Il negozio può essere semplicemente inteso come un luogo di incontro tra compratore e venditore, un luogo dove il cliente può conoscere il prodotto, vederlo e magari toccarlo e provarlo. Ma per l'Olivetti il negozio era qualcosa di più: doveva anche essere un luogo capace di presentare e comunicare uno stile aziendale impegnato ad offrire insieme all'eccellenza tecnologica e alla funzionalità dei prodotti, anche la bellezza e la cultura in tutte le sue dimensioni.
Adriano Olivetti voleva che tutti i punti di vendita gestiti direttamente dalla Società mostrassero un uguale livello di rigore formale e fossero basati su quegli ideali di innovazione, bellezza, funzionalità e attenzione all'ambiente socio-culturale, che ispiravano tutta l'attività aziendale: dunque, non solo la progettazione e produzione dei prodotti, ma anche le architetture industriali, gli ambienti di lavoro, l'organizzazione commerciale, i punti di vendita, ecc. In particolare per i negozi venivano di volta in volta adottate le soluzioni architettoniche e di arredamento ritenute più rispondenti alle caratteristiche della società locale.
Seguendo questi principi, era inevitabile che i negozi Olivetti fossero qualcosa di più che degli eleganti show-rooms di rappresentanza, strumenti della comunicazione pubblicitaria: erano piuttosto una concreta manifestazione di quello stile che permeava ogni settore dell'attività aziendale. Era forte la convinzione che non bastasse fare un bel prodotto, ma bisognasse anche farlo bene e proporlo al cliente in un bel negozio, capace con le sue forme e architetture di stupire il cliente e di esaltare ancora di più i caratteri innovativi del prodotto esposto.
Se poi il negozio si trovava a New York - in quegli anni l'ombelico del mondo - per l'Olivetti diveniva ancora più importante cogliere l'occasione per presentarsi come un'impresa italiana all'avanguardia, ricca di innovazione e di valori, dinamica anche sul piano della sperimentazione industriale e culturale.
"Un'invenzione piena di inedito e di valori poetici"
Questi obiettivi sono ben chiari agli architetti Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Rogers (il noto studio B.B.P.R., di cui inizialmente faceva parte anche Gianluigi Banfi, deceduto nel 1945) quando Adriano Olivetti affida loro il compito di allestire un negozio nel palazzo al n. 584 della Fifth Avenue di New York e cioè, in quel blocco tra la 44th e la 45th Street, noto anche come "blocco dei miliardi", per l'alta concentrazione di sedi e uffici di grandi imprese internazionali.
Il compito che i tre architetti devono affrontare non è semplice: il negozio è profondo 23 metri, largo 8 e alto 5; il rischio è che il cliente, entrando, si senta imprigionato in un lungo corridoio, una scatola senza uscita dove ci si muove a disagio. Ma l'ingegnosa creatività dei tre architetti supera tutti gli ostacoli e porta a proporre una soluzione sorprendente nel suo complesso e nei suoi dettagli.
Un articolo pubblicato sul n. 298 di Domus nel settembre del 1954 afferma che il negozio Olivetti di New York "è una invenzione, è pieno di inedito e di valori poetici", frutto della riuscita sintesi tra antico e moderno, tra innovazione e tradizione, tra industria e arte.
Le soluzioni architettoniche adottate sono un concentrato di novità. Innanzi tutto, la vetrina arretrata rispetto alla linea del marciapiede esterno crea uno spazio coperto - quasi un'anticamera del negozio; qui, a libera disposizione di tutti i passanti, è collocata una Lettera 22. Chiunque può scrivere un messaggio, da lasciare o da portar via, e allo stesso tempo sperimentare, indisturbato, l'uso della macchina.
Poi le due grandi vetrine, una delle quali misura 6 metri di larghezza per 4,5 di altezza, separate dall'enorme porta di ingresso, alta quasi 5 metri, in noce scuro, con una cerniera dentellata in bronzo.
Entrati nel negozio attraverso questo enorme varco, le sorprese continuano. Il pavimento in marmo verde picchiettato (proveniente dalla cava di Runaz, nel comune di Avise, AO) si estende anche alla "anticamera" esterna, creando l'immagine di un ambiente unico, dentro e fuori; da questo pavimento emergono, senza apparente soluzione di continuità perché realizzate con lo stesso marmo, delle stalagmiti di forma conica e di altezze diverse, che fungono da supporti delle macchine esposte.
Vicino all'ingresso, l'elegante tavolo a forma di mezzaluna, usato come punto d'appoggio per la vendita, ha un piano in marmo rosa di Candoglia (comune di Mergozzo, VB), noto per essere stato largamente usato per il Duomo di Milano. Lungo la parete, su alcune mensole fatte con lo stesso marmo rosa sono poste le macchine a disposizione dei clienti per la prova.
Al fondo del locale una scala, con gradini sempre in marmo di Candoglia, conduce al mezzanino dove sono posti alcuni uffici per i dipendenti.
L'illuminazione è offerta da coloratissime lampade in vetro di Murano, di forma molto allungata, che pendono dal soffitto quasi fossero stalattiti contrapposte alle stalagmiti che emergono dal pavimento.
Appena entrati, sulla destra, un altro elemento caratteristico dell'arredamento è una grande ruota verticale (c.d. "paternoster"), in metallo colorato, che con un lento movimento rotatorio "pesca" dal seminterrato i ripiani su cui sono posti i modelli di macchine per scrivere e da calcolo da mostrare ai visitatori.
La vastità del salone è animata - lungo tutta la parete di sinistra, per chi entra - da una splendida scultura murale di Costantino Nivola, l'artista sardo che sul finire degli anni Trenta aveva lavorato in Olivetti, ma che nel 1939 si era trasferito a Long Island, vicino a New York. La straordinarietà di questo bassorilievo, che basterebbe da solo a rendere unico il negozio Olivetti, traspare anche dalle semplici parole dell'artista, che così descrive la particolare tecnica ("sand casting") da lui sviluppata: "E' la più grande delle mie sculture in sabbia [misura oltre 20 metri di lunghezza per 4 di altezza]. L'ho fusa a sezioni, nella mia casa di Long Island, vicino alla spiaggia. Come è stata creata? Prima di tutto metto della sabbia bagnata nelle forme di legno e faccio dei disegni. I miei ferri del mestiere sono qualsiasi cosa: un coltello, una conchiglia, il mio pollice. Quando il disegno è completo, verso del gesso di Parigi sopra la forma di sabbia e quando il gesso è secco ecco fatta la mia scultura, che presenta una bella superficie di sabbia lanuginosa". Con questa tecnica, molto apprezzata anche da Le Corbusier, Nivola elabora nella sabbia un disegno astratto e realizza un bassorilievo dal colore caldo e naturale, dovuto alla sabbia che aderisce al gesso; in questo modo Nivola contribuisce a rendere l'ambiente più luminoso e accogliente. A chi gli chiede cosa rappresenta la sua opera, l'artista risponde dicendo che potrebbe essere qualunque cosa, ma volendo darle un titolo lui la chiamerebbe "Ospitalità".
La testimonianza di Thomas J. Watson jr.
La sorprendente novità del negozio di New York trova una conferma in un episodio citato da Renzo Zorzi in occasione del convegno che si tenne a Ivrea nell'ottobre 1980, a vent'anni dalla morte di Adriano Olivetti. Ricorda Zorzi che quando nel 1965 a Thomas J. Watson jr., amministratore delegato dell'IBM, venne assegnato a New York il premio Kaufmann, il più prestigioso riconoscimento mondiale per il design, il grande manager americano dichiarò di essere rimasto colpito una sera di una decina d'anni prima da un singolare negozio aperto sulla Fifth Avenue, dove le macchine per scrivere erano colorate (e non nere come quelle IBM), i mobili da ufficio colorati, le lampade in vetro di Murano pendenti dal soffitto erano campane colorate, le pareti erano sculture moderne... Aveva così scoperto l'innovativo stile di questa impresa italiana e in IBM si pensò di in qualche modo di imitarla. Le realizzazioni del design IBM che ne seguirono valsero all'impresa il premio Kaufmann. Ma in realtà, aggiungeva Watson, si tratta di realizzazioni che "provengono da una società chiamata Olivetti, da un uomo chiamato Adriano Olivetti. [...] Per questa ragione io mi inchino rispettoso alla sua leadership".
Nonostante questo importante riconoscimento da parte dello storico capo dell'IBM, le difficoltà dell'Olivetti sul mercato americano, gli alti costi di gestione del negozio e anche l'evoluzione dei prodotti che col passaggio dalla meccanica all'elettronica richiedono nuovi spazi e modalità di presentazione, all'inizio degli anni '70 indurranno la Società a chiudere "il negozio più bello della Quinta Strada", come nel 1954 l'aveva definito un reportage di Tempo, e a sostituirlo con la show-room posta nella nuova sede della OCA, al n. 500 di Park Avenue. Il prezioso bassorilievo di Nivola verrà smontato e in gran parte trasferito a Boston presso il Massachusets Institute of Technology (MIT).