La fabbrica in mattoni rossi
A Ivrea il primo nucleo degli stabilimenti Olivetti è familiarmente conosciuto dagli eporediesi come “la fabbrica in mattoni rossi”. Questo edificio, caratterizzato da strutture portanti in cemento armato e tamponamenti in mattoni, nel 1908 ospita la sede della società appena fondata da Camillo Olivetti. La costruzione, però, risale al 1896: era stata progettata dall’ingegner Camillo per ospitare una sua precedente attività industriale.
Agli inizi la piccola fabbrica è sufficiente per tutte le attività della Olivetti, ma con lo sviluppo dell’azienda nell’arco di trent’anni si rende necessaria la costruzione di altri edifici intorno a quello principale.
Questo primo complesso corrisponde, per impostazione planimetrica e strutturale, alla concezione e agli standard degli edifici industriali dell’epoca. Vi si svolgono tutte le attività di produzione che si estendono progressivamente dalle macchine per scrivere ad altri prodotti per ufficio, alle macchine utensili e alle relative attività accessorie.
Nascono, così, le Officine ICO, dall’acronimo del fondatore Ing. Camillo Olivetti, che nell’arco di circa sessant’anni, tra il 1896 e il 1958, con successivi ampliamenti si estendono lungo l’attuale via Jervis (allora via Castellamonte), fino alla completa saturazione dell’area disponibile.
Le officine, estese su un fronte lineare di quasi un chilometro, segnano il paesaggio urbano in modo talmente caratteristico da divenire un simbolo della stessa città Ivrea.
I primi tre ampliamenti della fabbrica
A partire dal 1934, sotto la direzione di Adriano Olivetti, lo sviluppo e la modernizzazione della produzione portano alla realizzazione di nuovi corpi della fabbrica con uno stile architettonico decisamente innovativo.
Gli ampliamenti vengono affidati ai giovanissimi Luigi Figini (1903-1984) e Gino Pollini (1903-1991), appartenenti a una nuova generazione di architetti italiani, aperti alle contemporanee esperienze delle avanguardie internazionali nel campo dell’architettura, della grafica, della pubblicità.
Il primo ampliamento (1934-36) segue le logiche della produzione in linea. L’edificio è un grande ambiente, caratterizzato da una struttura portante in cemento armato, che permette di formare grandi luci per lo spazio del lavoro, illuminato da ampie finestre a nastro; richiama, nell’impostazione compositiva e tecnica, i modelli di architetture per l’industria che stanno maturando negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.
La costruzione di questo primo blocco è attenta alle esigenze tecniche della produzione, ma anche a quelle psicologiche del lavoro. Lo spazio interno viene pensato in accordo alle analisi e alle ricerche relative alle qualità psicotecniche e illuminotecniche degli ambienti di lavoro, condotte fin dagli anni Venti negli Stati Uniti e che, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, non sono estranee agli architetti italiani più attenti al dibattito sull’architettura industriale. Se ne trovano tracce in numerosi articoli pubblicati su “Casabella-Continuità”, che in quegli anni è tra le più importanti riviste di architettura internazionale.
Il secondo ampliamento (1937-39) prevede sostanzialmente la sopraelevazione della fabbrica e lo studio delle nuove addizioni nella parte retrostante l’edificio, mentre si mettono a punto delle proposte progettuali che poco dopo confluiranno nel terzo ampliamento, il più significativo per la caratterizzazione delle Officine (1939-40).
Nel 1939 ha inizio infatti la costruzione di un nuovo edificio lungo 130 metri, rivestito da una parete vetrata, atta a coprire interamente la facciata dell’edificio e che richiama, per la sua soluzione tecnologica, le architetture delle avanguardie internazionali degli anni Trenta, con un riferimento preciso all’opera dell’architetto di origine svizzera LeCorbusier e al dibattito promosso dai CIAM (Congrès Internationaux d’Architetture Moderne) sui luoghi della produzione e dell’abitare.
La parete vetrata progettata da Figini e Pollini rinuncia alla possibilità di applicazione della ventilazione forzata all’interno dell’intercapedine vetrata, così come proposta dall’architetto svizzero e utilizza invece il principio della camera d’aria, risultante dallo strato compreso tra le due superfici trasparenti, cosa che garantisce una certa resistenza al calore. Per evitare l’effetto del surriscaldamento causato dal vetro, Figini e Pollini introducono nello spazio intermedio delle antine opache in faesite, disposte in serie continua, ruotanti intorno a un asse verticale per “filtrare” l’ingresso dei raggi solari.
Le Officine Olivetti si collocano da quel momento tra gli esempi più rilevanti dell’architettura industriale in Europa, suscitando interessanti commenti e prese di posizione nel dibattito dell’architettura italiana ed europea.
Il quarto ampliamento: la Nuova ICO
Il blocco delle Officine ICO sull’asse di via Jervis si conclude negli anni ’50 con il quarto ampliamento e la costruzione della Nuova ICO (1956-1957). In questo nuovo stabilimento viene abbandonata l’impostazione adottata per i precedenti edifici che offrivano grandi ambienti indifferenziati rispetto alle diverse fasi della produzione. La nuova fabbrica ospita al suo interno due cicli di produzione che trovano due collocazioni distinte, non contemplate nel progetto originario, ma differenziate nel corso della costruzione: quella del montaggio delle macchine, e quella, sotto la pregevole copertura in lucernari della corte interna progettata da Eduardo Vittoria (conosciuta anche come Officina H), che riguarda la torneria, le presse e le lavorazioni meccaniche.
La Nuova ICO riprende nelle soluzioni formali la parete vetrata già utilizzata negli ampliamenti precedenti, a sottolineare anche una volontà simbolica nel caratterizzare l’immagine unitaria dell’intero complesso produttivo. Le doppie vetrate sono segnate lungo il perimetro della corte interna e su uno dei lati dell’edificio da fasce di fioriere orizzontali in cemento armato, che corrono lungo la facciata e interrompono la monotonia del curtain-wall. I corpi delle torri per gli impianti sulla facciata della corte interna sono rivestiti da piastrelle di maiolica gialla. Questi elementi compositivi sono assai significativi della sperimentazione formale condotta da Figini e Pollini e nel loro insieme propongono un nuovo, interessante esempio di architettura industriale, molto innovativo rispetto ai modelli allora in voga.
Dalla fabbrica al Museo e al patrimonio Unesco dell'umanità
Oggi le officine ICO sono in gran parte trasformate in ambienti di ufficio e ospitano svariate attività. In particolare la Nuova ICO e l’Officina H sono state oggetto tra 1997 e 2001 di importanti interventi di ristrutturazione: una parte ospita oggi le attività di una società di telefonia mobile, una parte è occupata dalla sede decentrata dell’Università degli Studi di Torino e una parte ancora viene utilizzata come grande spazio per mostre, concerti e altri spettacoli.
Le trasformazioni nella destinazione d’uso non hanno inciso però sull’architettura originale degli stabilimenti di via Jervis. Il blocco delle Officine ICO è di grande importanza non solo per la storia industriale, ma anche per la storia dell’architettura italiana: alcuni tra i più famosi architetti italiani qui si sono espressi con spirito fortemente creativo e innovativo, tanto che l’insieme degli edifici olivettiani è spesso indicato come il risultato più significativo della ricerca architettonica italiana del ‘900 in campo industriale.
Il riconoscimento di questo valore ha portato nel 2001 all’inaugurazione di un Museo a cielo aperto dell’architettura moderna, unico in Europa per complessità dei temi proposti e quantità delle architettura visitabili.
Non solo: questi edifici sono divenuti anche il cuore di "Ivrea città industriale del XX secolo", nel 2018 riconosciuta dall'Unesco patrimonio dell'umanità.